Semplicemente la mostra dell’anno. Preparatevi a fare la fila. Io non me ne sono pentita (tanto piu’ che l’attesa e’ tra le gallerie di pittura e scultura del piu’ grande e ricco museo americano).
La mostra e’ dedicata a Lee Alexander McQueen, figura romantica e innovatrice della moda e del fashion system, morto suicida l’11 febbraio del 2010. The Costume Institute, uno dei diciassette dipartimenti che compongono il Metropolitan Museum of Art, il gigante della cultura espositiva americana, non e’ nuovo a iniziative forti, destabilizzanti, provocatorie. Ma anche se sono uscita frastornata dalle immagini aggressive, dai suoni strazianti e lugubri, e se sono ancora scioccata dai volti coperti dei manichini e da alcuni marchingegni che McQueen chiamava scarpe e accessori, devo dire che e’ una mostra ben fatta, con un suo chiaro fil rouge, i suoi momenti di pausa e di poesia. Insomma oserei dire che e’ una mostra ‘scientifica’.
L’intera esposizione – curata da Andrew Bolton – e’ costruita sulla personalissima interpretazione di romanticismo di McQueen, che si considerava un “romantico eccentrico”: nelle sue collezioni esploro’ l’individualismo, lo storicismo, il nazionalismo, il primitivismo, naturalismo. La carriera di McQueen viene presentata, in ordine cronologico (ovviamente si va per “stagioni” secondo l’ormai familiare lessico fashion), a partire dal suo esordio con alcuni pezzi provenienti dalla collezione intitolata “Jack the Ripper stalks his victims” con cui si guadagno’ la “graduation with distinction” nel prestigiosissimo Central Saint Martin College of Art and Design di Londra, nel 1992. Pezzi di sartoria, dove il taglio dell’abito rivela gia’ la sua cifra espressiva.
All’epoca della sua graduation Alexander McQueen aveva appena 23 anni, ma il suo curriculum mostrava gia’ una forte determinazione: abbandonata la scuola all’eta’ di 16 anni, fa apprendistato in varie sartorie londinesi, poi passa ai costumi per spettacoli teatrali, poi va nello studio londinese di uno stilista giapponese e a vent’anni vola a Milano da Romeo Gigli. E poi torna a scuola. Un percorso esemplare, la cui motivazione si ritrova in una delle frasi che introducono la mostra: “You’ve got to know the rules to break them. That’s what I’m here for, to demolish the rules but to keep the tradition”. E cosi’ l’abito sartoriale e’ stravolto, tagliuzzato, strapazzato, e ne viene fuori un taglio da maestro, che McQueen raccontava, veniva costruito prevalentemente in 3D (cioe’ addosso alla modella o al manichino) guardando la figura di profilo, perche’ e’ di profilo (e come dargli torto) che si vede il meglio e il peggio del corpo – qui inteso femminile – ossia rigonfiamenti, curve, stacchi…
Ancora in questa prima stanza, che inutile dirlo, fornisce un po’ di training prima del salto nelle collezioni vere e proprie, capisco anche l’origine di un vecchio mio pantalone Gucci (nel 2000 McQueen vende il 51% della sua azienda a Gucci Group per una cifra mai resa pubblica) che mi lasciava sempre un po’ troppo ‘scoperta’: si tratta del “bumster”, il pantalone a vita bassissima, che mostra la fine della spina dorsale e che – nelle intenzioni dello stilista – doveva allungare all’estremo il torso esaltando la bellezza di chi lo indossava.
La sala dopo e’ un tripudio di sete nere: “Romantic Gothic” esalta il lato sado-masochista di McQueen, quello un po’ perverso e a tratti macabro, ma anche la sua eccezionale capacita’ di plasmare l’abito. Il mio preferito e’ un castigatissimo abito quasi a palloncino in seta nera che appartiene alla collezione “Widows of Culloden” (autunno-inverno 2006/7). L’allestimento di questa stanza merita una nota a se’, per le luci basse e le intriganti specchiature settecentesche a parete. Sulla perete di fondo hanno infilato alcuni abiti (con stampe tratte dai pittori piu’ amati dallo stilista: Jean Fouquet, Hans Memling, Jean Hey, Hieronymous Bosch) in vere e proprie vetrine con piedini, come se si trattasse di un vaso di porcellana o di un uovo Faberge’.
La stanza successiva, intitolata “Cabinet of curiosities” e’ costruita esattamente come un gabinetto delle curiosita’, con scomparti grandi e piccoli e una miriade di oggetti in vista. E’ stata per me la piu’ faticosa da visitare. Ci si accalca tutti a capire cosa si ha di fronte, come si potrebbe indossare un cappello “orientale”, un orecchino con zampe di gallina, un bustino di cozze…e poi ci sono i video delle sfilate – ci torno tra poco – e una musica inquietante. Ecco, forse pero’, e’ la stanza che meglio da’ conto di quanto McQueen pensasse a 360 gradi, di come curasse ogni dettaglio, dai copricapo (o meglio i “nascondi” capo -tutti quelli in mostra sono di Guido Palau che assieme a Philip Treacy e Shaum Leane fornivano accessori e quant’altro servisse per le performance di McQueen-) alle scarpe. Mi sono fermata a seguire un paio di video relativi alle sfilate: niente a che vedere con le tradizionali sfilate, neppure con le piu’ stravaganti o irriverenti che possono venire in mente. Si tratta di vere e proprie art performaces che costituivano, raccontano i piu’ stretti collaboratori di McQueen, il cuore dell’atto creativo, l’ispirazione della collezione e non vice versa. Mi e’ piaciuta molto quella in chiusura della collezione “No. 13” (primavera/estate 1999) con la modella Shalom Harlow che “danza” mentre due robot industriali ‘made in Italy’ spruzzano colore sul suo bellissimo abito bianco (mi ricorda la pubblicita’ di qualche anno fa della Citroen Xsara….). E’ considerato un “truly iconic moment in fashion”, e non fa che esaltare l’abito, semplice e geniale.
Ci sarebbe altro da raccontare su questa stanza (in cui c’entra persino Harry Potter) ma passo alla successiva, dedicata al “Romantic Nationalism” e alla passione per la storia di McQueen, alle sue radici scozzesi, e alla sua avversione alla monarchia a causa della sua violenza contro la Scozia. Al di la’ di questo aspetto, devo dire che questa sezione della collezione appare come una delle piu’ mettibili. McQueen mostra una maturita’ nel mescolare i tessuti, i colori, i volumi che da’ ben ragione del suo successo internazionale che lo porto’, nel 1996, dritto alla maison parisienne di Givenchy come successore di John Galliano (passato a Dior..il resto e’ cronaca di questi giorni).
Ho fatto di nuovo la fila. Stavolta per ammirare in tutta la sua placida belta’ l’ologramma con Kate Moss e poi l’abito bianco col volto coperto con cui la discussa modella sfilo’ all’indomani dello scandalo coca. Lirico (l’ho ritrovato su Youtube “Kate Moss for Alexander McQueen”).
La sala dopo e’ un po’ enigmatica. Dentro una scatola con un fondo a specchio sono allestiti tre manichini: cambiano le luci, cambia quello che si vede e d’amble’ tutto si oscura e ci si ritrova proiettati sulla vetrina dell’installazione. Ha a che fare, capisco dopo, col concetto della bellezza, con le nostre aspirazioni e con l’origine della bellezza…
Ecco, forse uno dei pochi appunti che si puo’ fare all’esposizione e’ che non spiega abbastanza, e punta piu’ – com’era del resto tradizione di casa McQueen – nel provocare una qualche reazione. Sono sicura che le cuffiette aiutano in tal senso, ma stavolta ne ho fatto stupidamente a meno.
Si passa poi al “Romantic Primitivism” dove McQueen fa un uso massiccio di pelli animali e di animali interi (sono piccoli coccodrilli a fare da spalline al manichino di sinistra) in una audace sperimentazione di materiali ‘organici’. In questa sezione, dove il volto dei manichini e’ coperto da maschere in iuta, si trova un’altro dei miei abiti preferiti, l’Oyster Dress, della collezione Irere (primavera-estate 2003): resto abbagliata da come strati e strati di seta color avorio si sovrappongano leggeri in una sorta di moto circolare perpetuo..una finitura elegantissima, raffinata. La leggerezza, ebbe modo di dichiarare lo stilista, l’imparo’ da Givenchy. La sezione “Romantic Naturalism” e’ introdotta da una sorta di carta da parati (non sono riuscita ad appurare la sua natura ma credo sia proprio carta da parati) con disegni delicati su sfondo bianco che a prima vista sembrano fiabeschi poi, nel dettaglio, lo sono molto meno e non so neppure io che nascondano.
Una serie di abiti ispirati all’oriente – il kimono giapponese era una sorta di sua fissazione – altri con fiori veri,e altri ancora dalle forme arrotondate sui fianchi immettono nell’ultimo spazio espositivo dedicato all’ultima sua collezione, “Plato’s Atlantis” (primavera-estate 2010). Qui i manichini sono inguainati in tessuti tecnici con squame traslucide madreperlate che si ancorano sulle ormai leggendarie “Armadillo”, scarpe icona, un po’ dolmen un po’ scarpetta da ballo (e trovano ispirazione nelle scarpette da ballo, sulla punta). Lo sfondo e’ una composizione di forme e colori, una sorta di summa di archetipi grafici. Fissandolo un po’ ci ho visto anche forme del nuoto sincronizzato (in cui pare si cimentasse anche un giovanissimo McQueen).
La mostra finisce cosi’, un po’ come la sua vita, come un racconto di colpo interrotto.
Nel catalogo (45 dollari – bella la copertina) si trovano tutte le foto degli abiti in mostra e qualche interessante intervista ai suoi collaboratori.
Data l’affluenza, il museo ha messo a disposizione anche degli ingressi a pagamento per il lunedi’, giorno di chiusura. La mostra sara’ aperta fino al 7 Agosto.
Trovate maggiori informazioni sul sito del Met, mentre questo sito puo’ servire se si vuole acquistare in anticipo il biglietto.
Diana Cesi vive e lavora a New York City. Si occupa di mostre, allestimenti, collezioni d’arte al di qua e al di la’ dell’oceano. Per lavoro e per passione visita musei, gallerie, case d’asta di ogni parte di mondo. Insomma fa del suo meglio, rigorosamente senza stress.
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