“Tutti gli psichiatri sono scrittori mancati, esiliati dal loro regno per il bisogno di parlare.”
A voi non succede mai di aver voglia di un libro-digestivo? Intendo uno di quei romanzi che corrono veloci e che puoi divorare senza badarci tanto. A me capita spesso dopo aver finito un classico; dopo settecento o ottocento pagine fittissime di Dickens, ho il bisogno fisico di duecento pagine ariose da usare come un ammazzacaffè dopo un pranzo infinito.
E’ così che mi sono buttato su “Trauma”; l’avevo comprato un paio di anni fa sulla scia di “Follia”, che mi era piaciuto parecchio. Che dire: ha svolto perfettamente il suo compito. Nonostante il tema tutt’altro che solare, l’ho polverizzato nel giro di un paio di giorni.
La storia ruota intorno a Charlie Weir, uno psichiatra newyorchese che ha in cura alcuni reduci della guerra del Vietnam. Dopo la tragica morte di uno di loro, Charlie è soverchiato dal senso di colpa e abbandona il suo accogliente appartamento di Fulton Street, comprensivo però di moglie e figlia. Si trasferisce in un piccolo appartamento sulla ventitreesima ovest e lì vivacchia in una solitudine interrotta soltanto dalla triste frequentazione delle donnine di Chelsea e di Nora, un’amante più folle dei suoi pazienti.
Da bravo freudiano associa ogni sventura della sua vita ai deleteri rapporti familiari della sua infanzia: quello con un padre assente e alcolizzato, un fratello arrogante e insensibile, ma soprattutto una madre depressa e dispotica. Ogni ricordo della sgraziata casa natale dell’ottantasettesima ovest è un incubo ad occhi aperti e ogni incontro con il fratello Walt un motivo di litigio. I goffi tentativi di riconquistare la famiglia naufragano costantemente e non fanno altro che peggiorare il declino. Come se non bastasse, Charlie ha la sensazione di non riuscire più ad aiutare i pazienti, che diventano sempre più rari.
Travolto dalla disperazione, Charlie lascia New York (City) per rifugiarsi nel più sperduto angolo di New York (State): un manicomio sulle montagne Catskill. Guidato in quel luogo dimenticato da un impulso incomprensibile, solo lì riesce a scoprire finalmente cosa si cela dietro il suo trauma e, per quanto possibile, “a tornare a casa”.
L’aspetto curioso è che il romanzo non è tanto improntato sulla psichiatria, quanto sugli appartamenti di New York e dintorni. La trama non è particolarmente sconvolgente, ma quello che resta è il racconto dell’odissea di Charlie tra le varie abitazioni, e i vari quartieri di Manhattan. E’ come se ogni trasloco fosse il passaggio a una nuova fase della vita e ogni ricordo fosse legato a un appartamento o una casa delle vacanze. McGrath sembra voler arredare gli appartamenti di New York con le storie dei suoi personaggi; ma come in ogni casa che si rispetti, lascia anche molti ripostigli bui in cui i personaggi chiudono tutta la paccottiglia e i mobili che vorrebbero dimenticare.
Da leggere nella sala d’attesa di un famoso psichiatria “Old School” dell’Upper West Side, fingendo di essere un paziente e sfoggiando un’aria sperduta alla Woody Allen.
Tommaso Brambilla, globetrotter multilingue, si dedica alla scoperta del mondo una citta’ alla volta. Mandate una email all’autore del post all’indirizzo itommi@hotmail.it
wow io quelle due torri le vedo da casa mia