Siete a New York e non sapete come destreggiarvi tra gli infiniti musei da visitare? Lasciatevi guidare dai consigli della nostra esperta — e vi assicuriamo vi si apriranno nuovi mondi!
La prima volta che sono venuta a New York, the RMA non era nella mia lista, gia’ troppo affollata di Moma, Met, Guggenheim Museum, New Museum, Whitney Museum, Natural History Museum, gallerie e live performances. Aiuto. Ma appena mi sono stabilita in citta’, e’ stato il primo dove sono andata. E poi tornata e ritornata. E’ un piccolo museo di sette piani, un gioiellino sempre poco affollato (l’ultima visita l’ho fatta a inizio maggio e a dire tanto eravamo in 25 persone) dove poter godere un momento di sollievo, pacificare gli occhi e spalancarli per gustare cose mai viste.
L’esterno e’ poco appariscente. Alcuni video cercano di attirare l’attenzione del frettoloso passante. Io mi fermo sempre: vi scorrono immagini di mondi lontani e favolosi. Al loro fianco pannelli lunimosi con frasi celebri (al momento quella di Alexander Dumas figlio e’ la mia preferita: “How is it that little children are so intelligent and men so stupid? It must be education that does it”).
La storia del museo ha un incipit da romanzo made in the US. Una sera del 1999, Donald Rubin si trovava su un taxi che stava attraversando la 17esima strada, tra 6 e 7 ave, quando vede un cartello che denuncia la messa in vendita dell’edificio che ospitava la sede originaria dei mitici negozi Barneys a Chelsea. In quattro e quattro otto organizza un sopralluogo per il giorno dopo, e con sua moglie Shelley si ritrovano dentro questo sfavillante edificio a guardare da sotto in su una scala elicoidale di straordinario appeal. Ai due la forma geometrica evoca i mandala, e la magia e’ fatta. Decidono di acquistare l’edificio che in pochi anni apre al pubblico (2 ottobre 2004) diventando il museo con la piu’ ricca collezione di arte religiosa himalaiana nel mondo occidentale. Scusate se e’ poco.
Il museo ospita la collezione dei due coniugi, circa 3000 pezzi, ma per le sue iniziative si avvale anche di prestiti di altri musei, fondazioni e collezioni private. Persegue anche un piano di acquisizioni, nonostante ora i prezzi di mercato siano meno accessibili degli esordi. I Rubins – racconta Donald in Arts of Asia (vol. 40, 2, 2010, p.63) – fanno il loro primo acquisto nel 1975, un dipinto del XIX secolo. E’ il primo pezzo di una collezione che oggigiorno comprende dipinti, sculture, mappe, tessuti, stampe e manufatti di vario tipo e funzioni, databili tra il II e il XXI secolo. La definizione di Himalayan art mi suonava all’inizio particolarmente ostica. Himalayan Art? What? Ma e’ in sostanza una indicazione principalmente geografica, e mi ha fatto venire in mente che anche al Metropolitan Museum of Art, per esempio, sara’ il criterio geografico a guidare la denominazione delle nuove gallerie di arte islamica, cosi’ come lo e’ stato per le gallerie di AAOA (Arts of Africa, Oceania, and the Americas).
Di fatto, al RMA si trova la produzione artistica di carattere religioso di vari paesi e regioni asiatiche: Tibet, Nepal, Kashmir, Cina occidentale, Buthan, India, Mongolia. Un bel po’ di mondo se solo si guarda il planisfero. Il tutto allestito con una eleganza, una cura e una attezione per il visitatore, grande o piccino, devoto ed esperto o, come me, alle prime armi con questa cultura (non credo possano far testo le numerose volte che ceno indiano) che merita grande ammirazione.
Veniamo alla visita. In questi posti, il dubbio e’ sempre lo stesso. Ascensore fino all’ultimo piano e poi discesa lungo la scalinata, oppure tutto a piedi? Ho provato entrambi i modi, e penso che “tutto a piedi”, in salita, sia il criterio inteso dai curatori visto che il secondo piano (sarebbe il primo dal nostro punto di vista, ma qui il primo piano e’ considerato quello che noi chiamiamo piano terra – questo vale in tutti i musei) ospita una sorta di introduzione alla cultura e all’arte himalaiana. Gateway to Himalayan Art si apre sulla figura di Buddha, fondatore del buddhismo, e non a caso le guide – preparatissime e gentili, ve le consiglio vivamente – mi accolgono con un “Meet the Buddha”. Buddha, l’illuminato, al tempo Siddhartha (questa la dizione corretta), si racconta visse tra il VI-V secolo a.C. Nato da una ricca famiglia che governava il paese, a 22 anni fuggi’ al suo destino familiare per cercare se stesso, e a 35 la meditazione lo porto’ al Nirvana. Tante sarebbero le storie e gli aneddoti da raccontare, dai lobi oblunghi di Buddha alla protuberanza sulla testa, alla prevalenza del rosso come pigmento sui tessuti. Io ho trovato di esemplare chiarezza la spiegazione del modo di produrre le statuette in metallo (in prevalenza in lega di rame, in bronzo, dorate, o in argento) col metodo della cera perduta. E solo per inciso vale la pena notare che mentre nella regione dell’Himalaya questa tecnica era ben perfezionata gia’ nel 1000-1100, con esiti raffinatissimi che si possono ammirare un po’ dappertutto nel museo, in Italia dobbiamo aspettare il Quattrocento. Da noi la tecnica si era semplicemente dimenticata.
Sempre in questo piano ho vissuto un momento di grande spiritualita’ di fronte a The Tibetan Shrine Room, una stanza tolta di peso da una casa newyorkese (mi trattengo a fatica da ogni altro commento) dove la proprietaria, tale Alice S. Kandell, si e’ fatta allestire da monaci e architetti un vero e proprio santuario, una sorta di cappella privata buddhista. Le flebili luci e i canti dei monaci (mantra) fanno il resto. Sono rimasta a fissare quelle luci una decina di minuti. Che pace!
Al terzo piano si trovano Masterworks – Jewels of the Collection, dove sono esposti alcuni pezzi chiave della collezione Rubin. In una stanzetta un po’ defilata sono raccolte le riproduzioni digitali dei dipinti murali che decorano le pareti del tempio tibetano di Lukang. Ecco un caso in cui la riproduzione digitale – qui meglio di un fac-simile – da’ il suo meglio, permettendo di ammirare in tutto il loro ‘virtuale’ splendore opere che il tempo e l’incuria hanno ridotto in pessimo stato. Il palazzo venne fatto costruire dal quinto Dalai Lama come luogo di studio e di meditazione e i murales facevano parte dell’istruzione, diciamo cosi’, del Dalai (e la guida racconta che pare che l’ultimo Dalai non abbia mai potuto accedere a questi murales perche’ quando era nel tempio non era considerato abbastanza preparato – e io li posso vedere!).
Al quarto piano Quentin Roosevelt’s China: Ancestral Realms of the Naxi. Si tratta di una delle minoranze cinesi le cui opere vennero in massa acquistate dal nipote del presidente americano.
Al quinto piano Patterns of life-the art of Tibetan carpets, produzione datata tra la fine del XIX e il XX secolo. Pezzi molto belli, sia d’uso quotidiano che per meditazione. E il sesto piano con The Nepalese Legacy in Tibetan painting (chiude a fine Maggio, alas) dove David P. Jackson, guest curator, ha messo assieme straordinari pezzi di pittura che sembrano uguali ma che non lo sono. Prima di ritornare giu’ e’ d’obbligo uno sguardo alla scala. E poi giu’ giu’ fino al piano interrato con le spettacolari fotografie di Thomas Kelly, The Yogis of India and Nepal, che danno conto delle pratiche ascetiche ancora diffuse in quei paesi, alcune davvero estreme.
Prima di lasciare il museo, si puo’ dare una occhiata al piccolo shop, ben fornito di libri, cataloghi delle mostre, guide per lo yoga facile o per realizzare mandala, e quant’altro.
Ma quello che merita davvero e’ la piccola cafeteria da dove si sprigiona il delicato profumo che pervade il museo, un mix perfetto di foglie di te’ e ciotole di riso. Invitante.
Per saperne di piu’: The Himalayan Art Resources (HAR): www.himalayanart.org Arts of Asia, vol. 40, 2, 2010.
Indirizzo: THE RUBIN MUSEUM OF ART, Art of the Himalayas, 150 West 17th street (Chelsea) www.rmanyc.org
Diana Cesi vive e lavora a New York City. Si occupa di mostre, allestimenti, collezioni d’arte al di qua e al di la’ dell’oceano. Per lavoro e per passione visita musei, gallerie, case d’asta di ogni parte di mondo. Insomma fa del suo meglio, rigorosamente senza stress.
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