Come probabilmente avrete notato da Facebook, ieri sono stata a Chicago per lavoro. Dico ieri perche il viaggio di lavoro sarebbe dovuto protrarsi fino a stasera, ma dato che l’ennesima tempesta di neve si sta per abbattere sugli Stati Uniti orientali e, isolatamente, Chicago (si, Chicago e’ quella citta’ fortunella che attira come calamita qualsiasi incolumita’ naturale. Puo’ esserci il sole su tutte le altre citta’, mentre a Chicago sta probabilmente nevicando) il mio volo e’ stato cancellato.
Tra le opzioni: condensare il lavoro di due giorni in tre ore e prendere l’ultimo volo agibile per New York, o aspettare fino a mercoledi mattina, sperando che la neve fosse passata – ma con grosse probabilita’ di rimanere bloccata per un altro paio di giorni, ho scelto di correre come una pazza per tre ore e passare la notte a casina, per la gioia del mio gatto.
Quindi facendo due calcoli, atterrata alle 9, ripartita alle 7, ho passato ben 10 ore nella citta’ del vento.
Ora, probabilmente per voi suona come cosa normale, ma per me, una volta ragazzina della Brianza, che quando faceva la pendolare per studiare a Milano (nota bene: venti kilometri in croce) arrivava a casa la sera distrutta e da buttare, fare New York-Chicago andata e ritorno in meno di dodici ore mi sembra quasi una magia che manco la supersonica Virgin Galactic.
Lasciate che vi racconti due aneddoti del passato per farvi inquadrare meglio la situazione.
Dagli zero ai quindici anni io e la mia famiglia andavamo sempre in Liguria per le vacanze estive. Quando giungeva il momento della partenza, si puntava la sveglia alle 4 per evitare la coda e si faceva la levataccia per due ore di macchina (che poi si arrivava sempre alle 6 distrutti e con una mazza da fare fino alle 11.) Mia mamma iniziava a preparare la valigia due settimane prima, e sembrava quasi dovessimo trasferirci di casa per un anno. Ci portavamo addirittura la “scorta,” la chiamavamo, ovvero pasta, pelati, riso, tonno in scatola e tutte le cibarie necessarie per le due settimane. Come se in Liguria non avessero i supermercati. Come se stessimo andando in un paese del terzo mondo.
Passando oltre, il mio primo volo aereo non sara’ mai dimenticato. Avevo 16 anni e avevamo deciso di passare le vacanze natalizie a Roma. Per un motivo o per l’altro, avevamo scelto l’aereo. La mattina presto prima di partire tremavo come una foglia. Nel bel mezzo dell’attacco di panico piu’ incontrollabile della mia vita, continuavo a ripetere “io non ci vengo, io non ci vengo.” Fino a quando mia mamma mi ha tirato un ceffone cosi forte che secondo me ha sorpreso entrambe (fate conto che in trentanni di vita l’unica altra volta che mi e’ stato mollato un ceffone in piena faccia era a Venezia, dopo aver fatto cadere gli occhiali da sole nuovi di pacca costati tantissimo in acqua sul ponte di Rialto) che mi sono subito ripresa. Poi pero non ho mangiato per i successivi tre giorni per il pensiero del volo di ritorno.
Capite quindi che per me uscire di casa con la mia borsina con dentro praticamente nulla, in direzione Chicago per la giornata, mi crea degli scompensi psicologici. Robe dell’altro mondo.
Che sia stata l’America a cambiare questo mio modo d’essere? Che sia semplicemente cresciuta? Che sia entrata anche io a far parte della schiera dei pendolari d’alta quota, che prendono piu’ aerei che pullman?
Comunque sia, siamo al 21 di Gennaio e sono gia a quota cinque voli. Se continuo con questo ritmo ora di Natale mi faccio il giro del mondo tre volte gratis usando le miglia di premio fedelta’!
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