Pubblichiamo volentieri il racconto di Carmen, frutto del suo amore per New York.
Perché nasce un amore: forse perché se ne ha bisogno, come cantava Tenco.
Non è come per un partner, o un familiare, o un animale. Quando scatta l’amore per un luogo, è una dolce tortura senza fine, che ti accompagna per la vita, anche quando capisci che sarà difficile tornarci e mai ci vivrai, come avevi tante volte sognato.
Prima arrivò la passione per gli USA. American dream? Non proprio, non solo.
Quei telefilm dei vecchi tempi: la moglie ha la messa in piega fatta di fresco, capelli corti e un po’ mossi; sta con i tacchi anche per casa e indossa, talvolta, un grazioso grembiulino. C’è la casetta con il vialetto, il garage, talvolta il cane, e due figli. La cucina ha la finestra sopra il lavandino e le graziose tendine annodate con il fiocco laterale; dallo spicchio libero dei vetri si intravede un giardino, il marciapiede quasi vuoto e due tizi che camminano e chiaccherano amabilmente. Tutto era così tranquillizzante, soft, invitante. Il Vietnam, il segregazionismo, la povertà, il maccartismo: nulla, in confronto a quella casetta e le sue finestre da cui filtrava sempre il sole.
E poi vennero gli anni di fuoco: le lotte per diritti civili, il rock e quel benessere targato patto atlantico: la nostra mamma Amerika.
Quel posto chiamava: era nostro, dovevamo solo afferrarlo. Era la porta per la felicità.
Boulevards e avenues ci catturavano. Entravo in un vortice filmico, in quelle serate di autentico godimento allo stato puro: io e Marylin, io e Billy Wilder, io e Dustin Hoffmann.
Eccomi.
Ci perdiamo i compagni di viaggio per un disguido che non è dipeso da noi, ma tant’è, arriviamo tardi: soli, una sera di settembre, tanto tempo fa, la prima volta che andiamo così lontano.
Atterraggio al JFK – applauso al pilota. Evviva, eccoci a NY! Già, ma adesso? Ci fanno aprire le valigie, ci interrogano, frugano, finché i pochi italiani si sono volatilizzati.
Proviamo a chiedere in giro: dopotutto sappiamo l’Inglese. Lo slang è ostico! Persi negli States. E il nostro gruppo non ci ha aspettati.
“Allo Sheraton!”.
Guadagniamo tremebondi l’uscita: subito ci abborda un tonico tassista.
Non abbiamo il tempo di aprir bocca che quello ha già sistemato precariamente tutte le valige dietro, ci caccia a forza nell’auto e sbraita: che simpatici gli italiani, sono stato in Italia, a Gorizia nel 1944. Il tassametro è spento.
Inizia un giro vizioso. Si intravedono suburbi, facce inquietanti da gang. Leggiamo già i titoli dei giornali:
“ Giovani italiani rapinati e picchiati nella Grande Mela”.
Ma subentra un incantamento. Non parliamo più tra di noi, non ce n’è bisogno. Le note di “Take five” risuonano nella mia mente, l’unica colonna sonora che riesco a immaginare per questo spettacolo.
Manhattan si avvicina. Sopra, cielo e stelle, in una prospettiva concava, simile a certe cartoline: o sono io che la trasfiguro. Dentro, come in quelle bocce di vetro con la neve finta, questo presepe moderno, dove tutto può ricominciare. Ma sì, perché non lasciare tutto alle spalle, fermarsi.
Prendere casa in un vialetto con le foglie degli alberi che crepitano sotto le tue scarpe, i pochi scalini, l’ architettura liberty pesante; magari nel Village, tipo quella dove viveva Serpico, dietro un giardinetto: triste, sì, forse, ma a New York.
Passiamo un bridge, e i giganti si avvicinano, ci siamo dentro. Sì, io da qui non vado più via. Le Twins si stagliano, le vedi da tutte le parti, illuminate. Sono brutte, dicono, ma a me sembrano bellissime, così, deserte, immerse nel nulla tra un delta e l’oceano, nel vuoto dell’umanità che le abbandona alle cinque. Cemento e cristallo, il vento che ti sferza da ogni canyon, negli spazi tra loro e gli altri grattacieli, così piccoli in confronto, piantati attorno alle due regine: non c’è traccia di vita, è un deserto del cuore, ma è a New York.
Mi giro, ecco l’Empire; guarda, una volante bianca e nera della NYPD, come Kojak, o Al Pacino che arriva e tutti lo guardano storto. Un locale, un topless bar. Squallore, dici? Ma no, è bello, è perfetto.
Siamo ai piedi del ponte di Brooklyn, davanti a Manhattan, accanto a pneumatici bruciati e vagabondi ubriachi, dove si sedeva Travolta nella Febbre del Sabato sera; sfrecciamo tra 75 e Lexington, qui Marylin girava la scena sulle grate;: malinconia , ma a New York.
Ti amiamo, NY, chissà perché. Di un amore che nonn conosce ragione, inizio e fine. Ha il sentore dell’infinito e dell’immortalità. Della speranza e del sogno spezzato. Della porta verso l’infinito.
Volevano distruggerti, così si dice: non sanno che tu, almeno per noi, non morirai.
Lascia un commento